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Cittadini nel mondo, le esperienze di chi si trova all'estero per studio, lavoro e svago.

Sentirsi a casa in due case

Sentirsi a casa in due case

Tutte le volte che parlo con un ragazzo o una ragazza che vive all'estero cerco sempre di fare caso se quando parla della madre patria usa un termine chiave : casa.

Io, nonostante siano già 3 anni e mezzo che abito in Francia, parlo ancora del mio paesello in provincia di Ferrara come la mia casa. Anche se, negli ultimi tempi sono passata al livello superiore e cioè dico la "mia casa in Italia". E sì, per forza. Perchè io di case ne ho due.

Una, la prima e insostituibile è la casa dove sono cresciuta. Adesso che io e mia sorella abbiamo entrambe lasciato il nido è la casa dei miei genitori, ma io non riesco a smettere di considerarla mia. Quelle mura mi hanno vista gattonare, giocare a Barbie, litigare con i miei genitori, presentare a papà il mio primo amore e alla fine partire verso altri orizzonti.

L'altra casa non è ben definita, visto che negli ultimi anni ne ho cambiate 4, perciò per facilità penso sia la Francia in generale. In tutte le case in cui ho vissuto ho cercato di mettere qualche radice. Volevo che i muri e le stanze parlassero di me come la "mia casa in Italia". Quindi non vi sto neanche a raccontare gli andirivieni da Ikea o nei mercatini per trovare quel tocco che mi avrebbe fatto sentire a casa, come a "casa in Italia".

Poi ho realizzato che la casa non la fanno gli oggetti ma le persone. Sentirsi a casa non dipende dal tappeto o dal servizio da té, ma è un sentimento che subentra quando si sta bene con le persone che vivono con te.

E pensare che quando ero partita la prima volta, con la mia valigia di cartone, l'unico pensiero che avevo nella testa era di trovare la mia indipendenza. Ma cosa vuol dire poi indipendenza? Stare soli? Cavarsela da soli? Sapete che la lezione che ne ho tratto dalla mia esperienza all'estero è proprio il contrario: è bello poter contare su qualcuno, siamo e saremo sempre alla ricerca di qualcuno di cui ci possiamo fidare, di qualcuno con cui condividere, di qualcuno che intrecci la sua vita con la nostra.

Da quando sono in Francia ho stretto delle amicizie forti, sane, vere. Gli amici che ho trovato qui sono quelli che preparano il pranzo domenicale per e con me, sono quelli che chiamo se mi si rompe la lavatrice e quelli che arrivano alle 2 di notte perchè mi sono chiusa fuori. Non mi dimentico di dire che anche io per loro ho riempito borse dell'acqua calda per curare il mal di pancia, ho diviso il parmigiano reggiano che la mamma mi aveva spedito dall'Italia e ho preparato le mie prime lasagne al forno.

Questo per dirvi che a me piace avere due case. Partire è un ottimo modo per rafforzare i rapporti. Il sentimento che mi lega all'Italia, alla mia famiglia e ai miei amici è sempre acceso come un faro nella notte. Ma la mia casa in Francia è viva e si è creata un'altra famiglia. Quindi,e parlo soprattutto agli indecisi, partite, andate a conoscere, non abbiate paura, c'è sempre una casa che vi aspetta!

 

 

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Storie di ordinario nomadismo

Storie di ordinario nomadismo

Nomade, un po' per natura e un po' per necessita', sono approdata nella terra delle patate fritte, delle cozze e della birra. Si', sono in Belgio, nel cuore di quella - piu' o meno - amata Europa. Come molti altri, giovani e meno giovani, europei cio' che mi ha portato a Bruxelles e' stato un lavoro temporaneo e, forse, la speranza che poi qua potessi trovare quello che il mio paese non puo', purtroppo, offrirmi.

Facciamo un paio di passi indietro. Mi presento: sono Raffaella, vivo - temporanemente - a Bruxelles e negli ultimi anni ho vissuto in sette citta' diverse, ho cambiato almeno quindici case, con relativi traslochi in macchina, treno, aereo e bus. La mia traiettoria di vita ha incontrato e si e' scontrata con altri nomadi, il risultato e' che ho molti amici sparsi in giro per il globo. Amici che sento, possiamo azzardare, regolarmente, ma che vedo, purtroppo, molto meno. Certo molte persone le perdi per strada, ma fa parte del gioco. Capita che molto spesso, in questa "piccolo Mondo", ci si scontri ripetutamente. Mi e' capitato di ri-incontrare vecchi amici in luoghi diversi, mi e' successo di ritrovare persone che avevo perso di vista nei posti piu' impensabili. Mi e' capitato di bere rakja con una persona a Sarajevo e, poi, anni dopo di bere birra belga con lui qua a Bruxelles. Questa e' la faccia poetica della medaglia del nomade, sono incroci di vite che arricchiscono - molto - e ti aprono gli occhi, e la mente.

C'e' pero' una parte molto meno romantica e sta nelle difficolta', che non sono poche. Essere nomadi, vuol dire anche non avere certezze, vuol dire che non saprai dove sarai, cosa farai. Se poi sei nomade, perche' un lavoro lo rincorri e' ancora peggio. Al non sapere dove andrai, segue un sentirsi sospesi in una vita dove il futuro non ha alcuna definizione. Citando Zygmunt Bauman e' il carattere "liquido" della vita contemporanea. E poi ci sono le questioni pratiche: ogni spostamento significa generalmente un trasloco, significa dover trovare una casa in un posto che non conosci, significa dover familiarizzare con posti e persone nuove. Significa dover parlare tutto il giorno una lingua che non e' la tua. Io, ad esempio, prima del caffe' mattutino, posso parlare solo italiano! L'essere nomadi e' uno sforzo che richiede ingredienti quali lo spirito di adattamento e la pazienza, e quest'ultima e' una caratteristica di cui sono difettosa. E poi devi tenere in considerazione che le forme di alcune relazioni umane, come la famiglia e i vecchi amici, assumono forme diverse.

Detto cio', torniamo a noi, sono Raffaella e vivo a Bruxelles da circa otto mesi. Sono arrivata qua per un breve lavoro e, al termine, ho deciso di restare qua. Mi piace questa citta'? Ancora non ho una risposta, sicuramente a giorni alterni. Il mio rapporto amore-odio con Bruxelles e' dovuto, credo, alla sua mancanza di un'identita' forte, sensazione che ho avuto in altre citta' nelle quali ho vissuto, come Granada, in Spagna, e Roma. L'amore e' che e' Bruxelles e' molto stimolante, culturalmente parlando.

Ah mi dimenticavo. Di me: ascolto tanta musica, soprattutto tanti Pearl Jam e Ben Harper, leggo tanti libri, soprattutto Wu Ming ultimamente, e mi piace Modigliani.

Consigli d'ascolto, per la lettura di questo post: Pearl Jam - Given to fly

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Io, me e Toto Cutugno

Io, me e Toto Cutugno

Essere un italiano all'estero non è sempre facile. Quando sono arrivata in Francia per la prima volta tre anni fa pensavo di essere accolta con entusiasmo e curiosità invece mi sono trovata davanti a situazioni tra le più disparate:

 - a cena dal direttore del liceo dove lavoravo. "Cara Laura, siamo contentissimi di avere un'italiana tra noi. Ma è vero che siete tutti mafiosi?". Ta dan! Questa è una domanda alla quale tutti gli italiani all'estero hanno dovuto rispondere. E così mi ritrovo a dover spiegare, nell'incredulità generale, che non i tutti gli italiani sono mafiosi e che, sopratutto, non tutti i mafiosi sono italiani. Non sempre il messaggio passa, anzi alcune volte mi hanno riproposto la stessa domanda e ho dovuto giurare di non far parte di nessun clan.

 - uscita tra amiche. Io, una tedesca e un'americana (ok, sembra una barzelletta ma è tutto vero) chiacchieriamo davanti a una tazza di té. La tedesca: "scusami sai, ma io non capisco proprio perchè voi italiani siete così mammoni. Lasciatele vivere ste mamme!". Innanzitutto, la mia mamma non l'avevo messa nella valigia e non la nascondevo neanche nell'armadio. Decido di cavarmela menzionando giusto quel fenomeno che si chiama "fuga di cervelli" per non entrare nel dettaglio. Lei mi risponde che non lo conosceva e che in Germania i cervelli rimangono al loro posto. Chiamali stupidi.

 - in discoteca. Un francese provolone si avvicina, scopre che sono italiana e mi urla nell'orecchio le tre parole italiane che conosce pensando di fare colpo: "pizza, spaghetti, Berlusconi", il tutto corredato da gesti strani. Lì, purtroppo non ho avuto la forza di ribattere, ho sorriso e ho rifiutato le sue avances con la scusa che non ero io la nipote di Mubarak.

 - al compleanno della mia collega francese. Arrivo a casa sua e mi ritrovo davanti a cinque ragazze biondissime, altissime e magrissime. Io quel pomeriggio ho il monociglio perchè ho perso la pinzetta e i miei capelli nerissimi sono gonfi perchè (che strano!!) piove. Lei mi presenta a tutte e intavola una conversazione di venti minuti sul fatto che per un pelo non mi chiamo come Laura Pausini. Cavoli, è proprio un peccato!

 - al mercato. Sono intenta a scegliere con cura la frutta e la verdura per la settimana, sorrido al venditore e gli porgo il mio bottino per pagarlo. Appena dico una parola lui riconosce l'accento e incomincia a parlarmi in un inglese maccheronico e lentissimo, scandendo le parole una ad una. Rimango interdetta un attimo poi capisco che lo sto facendo perchè pensa che io non capisca il francese. Eppure avevo parlato la sua lingua pochi secondi fa. Provo a dirgli che posso farcela a parlare francese, del resto è da un bel po' che abito qui. Niente da fare, il venditore premuroso mi risponde "o-k-e-y". Pago, me ne vado e nella mia testa gli faccio il gesto dell'ombrello.

Ce ne sarebbero tante altre di storie che mi sono capitate da raccontarvi ma mi fermo qui perchè sono sufficienti queste a farvi capire che spesso noi italiani siamo considerati i migliori in tanti campi, moda, cucina, arte. Ma in tanti altri casi ci troviamo a doverci scrollare di dosso alcuni degli stereotipi più antipatici. E' per questo che ogni tanto vorrei non prendermela e fare come Toto Cutugno, cantare con la chitarra in mano "sono un italiano vero!".

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